Si sa che le conoscenze
importanti fatte nella giovinezza rimangono sempre indelebili
nella mente. Conobbi i suoi disegni, nel 1953 o, per meglio
dire, l'influenza che i suoi disegni ebbero su quelli del mio
amico, un ragazzo speciale allora, oggi, l'artista Normanno
Soscia. Il mio livello di lettura lo ritrovo ancora oggi, e
corrisponde a quel decorativismo di gusto rococò, leggero,
vibrante, gioioso, ma soprattutto quella intuizione geniale,
che consisteva nell'andare in fondo alle cose, attraverso un
surreale paradosso, e, da allora, in un continuo evolversi.
Questo pensiero si presentava alla mia mente, in tutti quei
momenti che credevo di avvicinarmi al cospetto dell'immagine
fisica, Saul Steinberg, l'ologramma che dovevo creare e
anteporre come persona vera difronte a me, a cui, avrei dovuto
rivolgere la mia intervista impossibile; conoscendolo come
uomo meticoloso, dubbioso e schivo, mi sembrava difficile. La
sua infanzia vissuta come incantata in un contesto di piccole
magie agli occhi di un bambino di nove anni, che oggi, in un fotomontaggio
strepitoso - visto su un libro recente sulla autobiografia con
Aldo Buzzi - Saul Steinberg tiene per mano se stesso da
vecchio; e, se la freccia del tempo avesse la possibilità di
ritornare indietro, l'insieme sarebbe già da sempre un tutto:
cioè vedendo oggi il fotomontaggio saremmo in grado di dire
che entrambi, sono la stessa persona, ma si deve aggiungere,
che nel bambino di allora c'era di già l'adulto che era stato,
perché oggi è tutto già passato.C'è da chiedersi se quel senso
di appartenenza che un figlio sente nei riguardi della propria
madre nel guardarla in una fotografia giovanile, ancor prima
che concepisse il proprio figlio che la osserva, cioè sentirla
madre, ancor prima che questa lo sia realmente, sia da
considerarsi pura fantasia, oppure se ci sia qualcosa, che non
sia solo una propria proiezione psicologica. E se così fosse,
in un tempo percepito da noi diversamente saremmo tutti uno
negli altri, come le cellule prima di duplicarsi.
Steinberg da piccolo aiutava i
genitori a rilegare libri e costruire scatole di cartoni di
varie misure; aveva due zii pittori di insegne, due altri con
cartolibrerie, e ancora un altro orologiaio; cosa poteva
aspirare di più per diventare lo Steinberg che conosciamo?
Nacque in Romania a Ràmnicul Sarat il 15.5.1914. Nel 1933 si
trasferisce a Milano. Costantino Nivola andrà a Monza nel
1931, si incontreranno a Milano. Nivola andrà in America nel
1940. Steinberg, fuggendo a causa delle persecuzioni razziali,
si imbarcherà anche lui per gli Stati Uniti nel 1941. Per
entrambi una vita da protagonisti, in quanto hanno operato con
artisti innovatori del pensiero dell'arte contemporanea. Penso
a quando conobbi personalmente Costantino Nivola, una taglia
d'uomo di misura d'altri tempi, forse intorno a un metro e
sessanta, un viso modellato con grande destrezza alla Giovanni
Pisano, i capelli con la scriminatura al centro e le due bande
di capelli opposte. Aveva un aspetto fiero. Oggi penso che avrei potuto
chiedergli del suo amico Saul, e pensare che proprio nello
stesso periodo che io lo conobbi, Antine, come lo chiamavano
gli amici sardi, aveva fatto uno straordinario ritrattino a
figura intera - alto circa 16 centrimetri - in argilla cotta a
Steinberg; Nivola, modellava la creta come le donne sarde
manipolavano la pasta lievitata per fare il pane. Dopo questa breve, ma indispensabile
premessa, evocatrice di ricordi, ho di fronte a me, con la
postura e le sembianze Saul Steinberg, visto da Nivola. E'
dentro la mia mente, la proiezione della mia volontà di
parlargli, che mi apre alla conversazione.
D.
Maestro, chi era
Nivola? R. Nivola è stato un uomo che ha
indagato con intelligenza su tutto il Novecento, ma gli ultimi
venti anni della sua vita su se stesso dopo aver capito gli
altri, senza più sodalizi come per esempio col grande Le
Corbusier; per essere più chiaro, lungo tutto il suo percorso
era sempre presente questa vena figurativa della grande
ritrattistica italica come la scultura romana, ripresa dai
maggiori artisti italiani del Novecento, Arturo Martini,
Medardo Rosso, Marino Marini. Mi piaceva perché non era un
ritratto celebrativo; è un ritratto di come ci vedevamo, di
come eravamo, anzi oggi si dovrebbe dire come siamo in
relazione alla storia dell'uomo. Io non ho mai avuto piacere di guardarmi, né mi sono
mai amato. Devo dire però, che, più volte, la mia immagine ha
fatto parte dei miei disegni, insieme ad altri personaggi, ma
l'autoritratto, non era a scopo di indagine psicologica, era
ritratto direttamente dalla mia memoria che attingevo
dall'immagine trattenuta nella mia mente per evocarne i tratti
somatici della mia figura intera. Quando si è vecchi, il
viso non è più interessato dalla fisionomia determinata dalla
componente muscoli, nervi, tensioni, no! Il viso prende una
sua maschera fissa, e l'espressione è data direttamente
dall'anima. Mi sono mirato, ora ricordo, un giorno in uno
specchio antico d'argento, e ho visto me; lo stesso gesto fu
fatto innumerevoli volte da una qualche fanciulla pompeiana,
senza che abbia lasciato una minima traccia di questo rito
realmente accaduto: lo stesso gesto tra me e lei, a distanza
di secoli, documentato solo dalla certezza che lo specchio
riflette.
D. Come
nasce un suo disegno e che cosa è per lei? R. La mia curiosità è la molla
principale che si innesca nel mio vedere il mondo, nel vivere
quotidiano, e, solo dopo aver capito questo, cerco di fare
entrare nel disegno il mio pensiero. È come la ricerca di una
conferma, è un modo di approfondire, di analizzare; è come lo
scrivere: si cerca la via più giusta per porgere l'argomento
al lettore. Bisogna dire che non è un'operazione del tutto
cosciente, è un misto di intuito, esperienza e caso. Non tutti
i disegni che faccio, sono esaurienti per dire ciò che penso
di una cosa; perciò, quasi sempre l'argomento lo replico più
volte; solo allora ogni disegno è completo, autonomo; come se
ognuno ricevesse in dono la propria singolarità e unicità, e
chiarezza. Vi sono momenti in cui il tempo rallenta, e abbiamo
la quasi coscienza che fare arte è come inviare per posta
messaggi, tra generazioni diverse.
D. Maestro, perché nei suoi
disegni c'è la costante ricerca del paradosso che specula sui
comportamenti di un popolo, come le mode generazionali, e le
nevrosi esistenziali?
R. Vuole dire il mio stile di
disegnare e il mio modo di vivere; vede dello stile non rimane
più nulla, perché il tempo appiattisce le cose in lontananza,
così come accade con le cose fisiche, un paesaggio, un'isola,
una veduta aerea viste a distanza diventano un'altra cosa. Le
opere si vedranno per epoche, per secoli; e molti autori che
oggi si differenziano l'uno dall'altro, in seguito andranno
tutti sotto un'unica insegna, connotata solo da uno o due nomi
fortunosamente sorteggiati dalla sorte.
Lo stile è un piccolo spazio
che un artista si crea e successivamente si gestisce per avere
una sua identità apparente; questa differenza gli consentirà
di avere libero accesso a quelle idee al disopra delle parti
che sono la saggezza dello spirito di un popolo che è dato
dalle stratificazioni delle necessità primarie sia materiali
che spirituali che rimangono inalterate nel tempo; lo stile è
solo un abito da indossare. Però vi sono le
eccezioni. Senza omettere che rimarranno i pensieri le
idee, i concetti le essenze delle cose, si pensi che le opere
che ancora ispirano altri artisti sono sempre dei minori,
mentre le maggiori sono quasi sempre sterili, esauste, non
hanno più nulla da dire, in quanto è un percorso concluso.
Quindi, lo stile è una trappola, è un limite. Il mito di
Narciso non corrisponde solo al suo concetto di mito,
narcisismo, ma anche al desiderio di fissare un'immagine
renderla sempre presente: lo specchio in cui l'immagine è
sempre latente, da cui deriva la pittura che si rivela per
miracolo degli specchi che trattengono le immagine
fissate.
D. Lo specchio e il suo
doppio la pittura. R. Sì, vede, per questo si
disegna per realizzare senza specchio ciò che lo specchio
consente, finché ci si è di fronte.
D. Allora lei adopera
gli specchi deformanti per una sua logica? R.
Non direi. Lei conosce quel racconto di HERBERT GEORGE WELLS
"Il paese dei ciechi"; ebbene in questo non luogo vive una
comunità di ciechi perfettamente consolidata, che esprime una
vita sociale completa ed è autonoma nel tessuto sociale e
spaziale, regolata da leggi sagge e progressiste: diremmo
'naturalizzata senza il complesso della vista'; fino a quando
non capita lì, per uno strano sortilegio, un vedente, che, tra
un'estenuante lotta nella ricerca dell'integrazione di una
vita vissuta come in un sogno, riuscirà a disincagliarsi da
questa paradossale vita priva della vista, a cui anche lui
avrebbe dovuto rinunciarvi per amore di una donna priva di
vista, con un altrettanto sortilegio, riuscirà a sfuggire a
questa cappa di piombo, che soffoca il desiderio più ambito
che è la libertà. Il mondo dell'arte è come quando si varca la soglia
d'ingresso di uno specchio. Sono mondi paralleli in cui tutto
è regolato da leggi relative a quegli ordinamenti, a quelle
relazioni, a quella realtà immaginata o fantastica; l'arte è
una finzione che la si accetta per fede, se c'è fede, solo
dopo ci si accosta, e la si legge. E' come una bandiera:
ognuno può destinargli le proprie insegne, facendo
apparentemente suo, l'eterno gioco che gli dona il vento.
D. Lei è un artista ma non è
un pittore; dico questo per portare il discorso sulla luce,
con la quale lei ci gioca senza colori, con un interesse che è
sorpresa e meraviglia: i riflessi e le ombre
R. Certo, il mio
interesse trascende la sua reale azione, ma che tuttavia è una
sua reale conseguenza, in quanto in entrambi i casi, la
generatrice di questi miei corti circuiti è la luce: la prima,
rivela, i riflessi, la seconda, crea l'ombra; ci sono ancora
gli specchi, con funzione diversa. Vede, guardandoci intorno,
il mondo che ci circonda è fatto di luci, ombre e riflessi;
solamente che, pur percependoli, ci disturbano e per questo
rimuoviamo tutto, perché le informazioni sono eccessive,
frantumano e destrutturano l'ambiente e lo spazio, così, come
capita con il vociare in un affollato mercato. Vede i
riflessi, effetto carta assorbente, gli specchi, le simmetrie,
sono solo un veicolo per comunicare un'idea. Riflessi e ombre
le due componenti presenti nello stesso disegno rispondono a
tempi diversi della giornata; le ombre fanno pensare a un sole
alto del mattino, o del primo pomeriggio, perché le ombre sono
nette; viceversa riflessi così si verificano di primo mattino,
quando il sole sta per sorgere o di tardo pomeriggio, appena
dopo il tramonto. Questa compresenza non attesa è deviante. Lo
stupore nel vedere il Narciso di Caravaggio non consiste nel
doppio dipinto del giovane, ma è il concetto del riflesso, la
funzione dello specchio, un oggetto quotidiano la cui presenza
ci inquieta alquanto ma che cerchiamo di rimuovere. I disegni
a soggetto i riflessi o le simmetrie portano ad uno
spaesamento in una realtà surreale, e assumono un significato
di macchina per sondare l'ignoto, con l'assenza del tempo.
D. In un disegno pubblicato
ne "La scoperta dell'America", il tema del disegno "riflesso e
ombre", rappresenta un tema classico (per il genere), in una
intricata situazione di improbabili riflessi che si riflettono
a loro volta,
in un punto si inserisce la parola OHIO, accade l'ennesimo
corto circuito, il riflesso, il segno OHIO darà sempre OHIO,
paradosso del paradosso che apparentemente sembra sbagliata
nel contesto non lo è, continuando a confondere il nostro
sistema di attesa,
R. Sembra solo una
trovata ma non è così, sembrerebbe un sofisma ma non è così;
per me è ancora un sorprendermi, che la realtà oggettiva che
ci circonda è misteriosa, e che le nostre regole convenzionate
sono manovrabili, manipolabili; ciò che non si ipotizzava è
che ci sono certezze non certe.
D. Il mondo psicologico dei
suoi fogli disegnati, fanno riferimento ai luoghi della
storia, quando parlano degli anni del fascismo; quando parlano
del costume americano e delle abitudini delle masse nella vita
quotidiana e delle costanti che un consumatore tipo si
comporta nei grandi magazzini, queste rilevazioni
anticiperanno la pop art. in America.
R. Vede io non amo
essere intervistato, perché non mi sento di dare risposte
adeguate a queste domande; i miei disegni sono ampiamente
autosufficienti, voglio dire che parlano da soli e senza
l'aiuto di nessuno che li spieghi; come può essere possibile
parlare degli umori, o a ventagli di sensazioni appena
percettibili, letture che sono affidate a più sensi
contemporaneamente. L'artista ha in dote strumenti grafici
e segnici che fanno da portali a scenari di varia natura,
sociali, politici, filosofici, che certamente fanno parte
della struttura culturale dell'artista, ma questo è sempre un
intuitivo, i suoi sensi sono sempre tutti assieme partecipi
quando si lavora. Mi dica lei come posso rispondere alla
sua domanda e condensare quello che ho detto dei miei
disegni? Per poter dire le stesse cose che ho detto con i
mie disegni, ci vorrà un poeta, uno scrittore, ma questi lo
fanno già per conto loro, e con i loro argomenti, con le loro
storie. D. Maestro ho un incontenibile desiderio, di
chiederle di un disegno che a me affascina particolarmente:
rappresenta una scala che gira su se stessa, con dei
personaggi che ci vivono sopra in un circuito chiuso, questo
disegno ha a che fare qualcosa con Danese M. C.
Escher. R. Mi meraviglio di lei, Escher è dimostrativo,
crea delle dimostrazioni a scopo di ricerca sulla percezione,
le sue opere, non hanno nessun rapporto con le necessita
esistenziali dell'uomo. Sì è vero che anche a me capita
ogni tanto di dare qualche saggio di questo tipo, ma se ben
guarda appena oltre, troverà sempre qualcosa, di cui stupirsi,
e qualche enigma da risolvere: vede mi sento più vicino a
Magritte, anche se lo ritengo troppo pittore per delle trovate
surreali, che sono quasi vicine al grafico pubblicitario.
Tornando al mio disegno della scala, questo vuole rilevare un
atteggiamento dei rapporti tra gli uomini.
D. Ma non comunicano, i suoi
uomini si incontrano su una scala impossibile collocata in un
quasi deserto; e poi i personaggi non si accorgono di essere
soli, senza essere consci del loro isolamento.
R. Certamente è una
comunicazione formale tra persone; del resto è una
constatazione basata sui dati di fatto, il mondo è pieno di
situazioni di questo tipo: la formalità ha una sua ritualità.
Il disegno farà pure
sorridere, creerà pure un segnale di sgomento, ma sarà pure
una presa di coscienza seppure amara; rispecchiandoci in
questi uomini ci vediamo nei nostri comportamenti intrisi di
ipocrisia e luoghi comuni, ma, nello stesso momento, questa
analisi è anche catartica oppure ironica e ci farà sorridere
di noi stessi. Le mie indagini non vertono sugli inganni
percettivi, e sulle convenzioni delle tecniche delle
rappresentazioni grafiche; io indago sui vizi degli uomini,
sugli stereotipi, sui comportamenti dei singoli e dei gruppi.
Questi uomini prigionieri da regole formali, ma è proprio il
formalismo che manda messaggi di non aggressione, di
tolleranza, di continuità, di normalità, la non regola è la
regola delle regole. La forma, la formalità, i luoghi comuni,
le frasi fatte rappresentano l'essenza stessa della normalità,
e quindi della pacifica convivenza. Ed io nella più classica
della normalità le registro, per confinarle nella normalità.
E' come un flusso di coscienza dei pensieri profondi
dell'inconscio; questo mondo parallelo dei disegni vive con
noi e i miei personaggi disegnati vivono in mondi paralleli ma
comunicanti per nostro stesso tramite.
D. Le tematiche che ricordo
maggiormente e che mi hanno affascinato, sono i visitatori
delle mostre, e le calligrafie antropomorfizzate: tra queste
due tematiche credo che vi siano molte
analogie. R. Chi di noi non ha fatto mai delle
considerazioni su questi due argomenti, coloro che vanno a
visitare una mostra, i cui visitatori somigliano tanto alle
opere esposte: a me è sempre capitato di fare questo
accostamento e c'è una ragione validissima; la nostra
disposizione verso le opere che andiamo a vedere, perciò
l'autore farà il referente, e noi noteremo nell'ambiente, solo
ciò che ci richiama allo stile della pittura che siamo andati
a vedere. Si è vero, anche io mi diverto quando disegno il
visitatore delle mostre e creo un'estensione come una
continuità di forme nello spazio, nello stile dell'opera, una
simbiosi tra l'opera e il suo spettatore; un poco come fa il
pittore con il tema, "il pittore e la sua modella" Il pittore
dipinge se stesso, e la sua modella, noti, sono sempre io che
dipinge il quadro e lo spettatore ideale. Analogamente la stessa cosa capita con le
scritture che defluiscono dalle penne a stilo, con le stesse
componenti psicologiche di personaggi, che le emettono; un
presidente, un titolato, un conte, uno caratterizzato da una
funzione per esempio, uno scienziato, un musicista, etc; anche
qui disegno il funzionario e la sua scrittura con gli stessi
segni e caratteri. Questi personaggi hanno, ognuno una
calligrafia specifica, adeguata alla propria funzione.
D. Che cosa è la qualità del
disegno? R. Vede questa dipende molto dalle
circostanze: un disegno vive se è l'uomo che lo invita a
vivere, lo sguardo di che lo cerca lo risveglia da quel foglio
che somiglia a un deserto di carta e, nel momento che comincia
ad interrogarlo, il disegno diventa memoria, libro,
conoscenza. E poi vi sono fattori esterni; un disegno, ad
esempio, scelto per una copertina di un monografia, deve
rispondere a tanti requisiti, come l'impatto con l'argomento,
l'epoca dei fatti, aspetti che sono indipendenti dalla nostra
volontà, mentre altri fattori sono ricollegabili ai nostri
interessi, come la preparazione personale, la propria
disponibilità alla lettura. Quindi occorrono diversi fattori a
concorrere, per innescare il contatto con l'opera, goderne il
suo significato.
D. Maestro c'è una data in
cui lei si è convinto che se stesso e la sua opera siano un
tutt'uno? R. Ma è sempre stato così, essere
disegnatore è come essere padre, fratello, uomo, donna, certo
lo si desidera, lo si vuole.
D. L'arte l'artista, io
intendevo questo tra l'artista e la sua
opera? R. Ma quale arte, artista sì, arte è
sempre stata lì, nello spazio tempo, e può essere raccolta, da
chi è in grado di estrarla, come la favola della spada nella
roccia; è lì nei libri, nella vita, nelle opere del passato: è
un'aura, che va raccolta; l'artista la rende solo visibile, la
espone attraverso la sua mediazione. Ed è pronta a prendere
altre forme, altre identità, con l'evolversi dei tempi, pur
rimanendo se stessa.
D. Maestro, lei ci ha
lasciati nel 1999 e questa intervista è stata effettuata nella
metà del 2001, le sembra possibile? R. Mio
gentile signor interlocutore, lei mi ha incuriosito quando mi
ha invitato a parlare di un mio amico sardo: l'artista
Costantino Nivola ed è stato questo che le ha aperto l'uscio
della mia memoria, ma sappia che io non sono interessato a
nulla, e ho speso una vita a rincorrere la poetica
dell'inutile.
IMMAGINI* - RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
> Foto di Costantino Nivola >> tratta
dal catalogo omaggio - Museo Nivola Orani > Terracotta
'Ritratto di Saul Steinberg, eseguito da Nivola' >>
tratto dal sito:
http://www.museonivola.it/Maturità/Nivola15.html > Le
successive immagini, opere di Saul Steinberg, sono state
tratte dal testo S. Steinberg, La scoperta
dell'America, Mondadori, Milano 1992: - Parata -
particolare - disegno anni '50 - Costume - tram - -
Bicibandiera - La scala - Autoritratto (?),
particolare - Visitatore di mostra, particolare -
Calligrafie personaggi, particolare - OHIO
>'Fotomontaggio Steinberg bambino adulto'
>> tratto da S. Steinberg, Riflessi e ombre, a
cura di A. Buzzi, Adelphi, Milano 2001
* Nel testo dell'intervista i titoli sono stati
attribuiti dallo stesso
autore.
Scritti
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