Gavino Tilocca è stato
soprattutto scultore. La scultura, il cui fare nasce insieme all'uomo, sia
identificando cose nei sassi, o imitando con la l'argilla
forme riconducibili al senso comune delle cose, ancora oggi
non si capisce se è l'uomo che sceglie la scultura o il
perpetuarsi di questa pratica a scegliere il suo artefice. Si
direbbe che quest'arte che si articola lungo millenni, ogni
tanto partorisce stili e grandi artisti, mentre i molti
residui di queste vocazioni si frammentano andando a
costituire un universo espressivo, che formerà la base per la
sua rinascita dopo il naturale invecchiamento. Un mestiere
che definiamo improbabile e che diventa qualcosa in più,
quando lo scultore, non si sa sotto quale influsso, si
adopererà a far contenere alla materia inerte qualcosa di
inspiegabile, che l'uomo chiama arte. Pochi anni fa andammo
all'EXMA'di Cagliari a vedere una bella mostra antologica che
il comune aveva dedicato a Gavino Tilocca. Partimmo di
mattino presto in macchina da Sassari, a fianco ad Angelo alla
guida, c'era Gavino Tilocca, silenzioso, e forse stanco;
dietro vicino a me sedeva il pittore Salvatore Fara che mi
disse che il pensiero di fare questo viaggio non gli aveva
fatto chiudere gli occhi per tutta la nottata. Le persone
grandi di età, non devono prendere appuntamenti: è troppo
stressante e crea ansia l'attesa della partenza e del viaggio.
In questa occasione vidi, per la prima volta, il bronzo
"La ragazza con i capelli alla garconne" Davanti all'opera Tilocca ed io ci scambiammo
intensi messaggi con lo sguardo, con una ripetuta serie di
cenni e di assensi, come si dice oggi "zippati"; a distanza di
tempo i dati contenuti in memoria vengono giù a cascata.
Quella scultura era la porta d'accesso del nostro intenderci,
il cui contenuto, oggi, mentre scrivo sto ancora decifrando.
Ritrovo mentalmente lo studio-laboratorio dello scultore,
mentre esegue il ritratto in argilla: di fronte la ragazza in
posa. Insieme a me presente sulla scena altre due persone: lo
scultore con le sembianze di qualche anno fa, poi la gentile
signora che allora aveva posato; una riunione per cercare di
ricostruire, per quanto sia possibile, la spinta che ha
consentito la creazione di questo bel ritratto. Parla lo
scultore che osserva insieme a me, e sentenzia: l'artista ha
un unico rapporto ed è con se stesso ma è conflittuale: è un
rapporto con il suo Demone, che lo rende dubbioso,
insoddisfatto; in questi momenti è il censore, il critico e
creatore della propria opera. La modella è già un ricordo
passato dopo che è stata scelta, e il guardarla è solo una
chiave di accesso, per far sì che la memoria ritorni in quello
spazio dell'intuizione che è la scintilla
iniziale. L'elaborazione ha un'altra funzione, ed è quella
di sciogliere quel groviglio di forze che compongono il
linguaggio artistico, per distenderlo, per orientarlo, per
fare in modo che il modellato esprima il concetto che tu hai
intravisto nel pensiero. Desideri che il tuo lavoro
somigli a ciò che tu credi di avere in mente, perché il tuo
modello mentale non ha contorni definiti, perciò è un
credo. Alla signora che stava insieme a me come su un set
cinematografico, chiesi: D. Signora, quella ragazza
allora chi era? R. Papà mi chiese di posare per
un ritratto per lo scultore Tilocca: capii solo che era un
onore. Si era nel primo dopoguerra nel quarantanove: era
primavera, e per me era il primo ingresso nella mia coscienza.
Da poco mi avevano portata da un'estrosa parrucchiera
cittadina, e ne ero uscita con questo taglio di capelli: li
chiamavano alla garconne; vedevo però intorno a me che c'era
una certa compiacenza; mi guardavano come per comunicarmi che
piacevo, che stavo bene con quel taglio, e così mi accettai
anch'io quando mi guardai allo specchio. La mia posa fu
esemplare; il sentirmi guardata, osservata da occhi che si
posavano sul mio viso, sui miei capelli, non mi infastidiva,
soprattutto perché non mi guardava negli occhi e non mi
sentivo in imbarazzo. Ma quello che ricordo con passione
era quando lo scultore, ritirando lo sguardo dal mio viso, mi
dava la sensazione che lo proiettasse sul modellato e lo
condensasse sulle mie sembianze. A volte il maestro, mentre
lavorava mi spostava la testa, prendendomi il mento tra il
pollice e l'indice, esattamente come faceva qualche giorno
prima la parrucchiera. Ora vedendomi in posa di fronte allo
scultore, mi sembra di vedere un quadro con il soggetto "il
pittore e la modella". Però sento, che questa scena mi è
estranea, come se il tempo e le vicissitudini della vita mi
avessero tradito. Sono un'altra, mi lega solo un tenue filo ad
una stagione felice della mia vita, vista da qui naturalmente;
e poi quella banda di capelli: mentre ero in posa era meno
accentuata rispetto a quella che poi sarà il bronzo, ricordavo
bene? Vede, come ero, quando posavo? Che strana situazione
questa visita nello studio dello scultore Tilocca: è tutto
fermo l'opera è già conclusa; il maestro lavora senza
aggiungere o togliere nulla, io sono in posa e sembro una
fotografia e poi noi tre alle spalle della scena, eppure
sembriamo non esserci, che cosa strana! Gavino Tilocca
dice: guardate che noi siamo nella mente di chi vuole
trasmettere questo fatto ad altre persone; é un racconto e
questo meccanismo mi sembra una cosa già vista ; mi sembra che
abbia delle analogie con uno dei quadri più belli in assoluto,
"Las Meninas" di Velàzquez . Il pittore dipinge il quadro che noi vediamo, ma,
a ben osservare, siamo in un labirintico giochi di rimandi: 1°
l'artista che si autoritrae, 2° i visitatori dello studio,
"Las Meninas", 3° scorgiamo al centro dell'opera lo specchio
che riflette i veri modelli che sta ritraendo il pittore al
cavalletto, il che ci fa capire che i modelli riflessi si
trovano al di qua del quadro, dove siamo noi a guardare
l'opera. Il modello di questa pittura che gioca a
duplicare gli spazi virtuali, con gli specchi, era praticato
già dalla cultura greco romano, come l'encausto ritrovato a Pompei, in cui Teti si
specchia nello scudo che lei stessa aveva ordinato a Efesto
(il famoso zoppo divino) per donarlo a suo figlio Achille. C'è
veramente da commuoversi per queste cose che non mutano nel
tempo. Dopo questa lunga prolusione con due interventi
spontanei da parte dei due protagonisti, decido di orientare a
modo mio quest'indagine per conoscere alcuni dati su questo
ritratto. D. Maestro, in quasi ogni ritratto lei imprime
un segno particolare come se fosse un preludio all'opera, come
nel caso della ragazza dai capelli alla garconne, cosa mi può
dire? R. Inizio ogni nuova opera solo quando ho
questo segnale, che mi si rivela attraverso la scelta del
modello. Mi stuzzica dipanare il gomitolo imbrogliato,
governare il fascino dell'intrigo, il dubbio da superare e
vincere: queste sono le problematiche, sostanziali del mio
lavoro. D. Come il ritratto di Stefano?: si ha l'idea
che sia un viso antico. R. E' vero dà l'impressione di un ritratto
dell'arte romana del basso impero; (per intenderci la Roma
delle grandi famiglie, non quella dei miti, Cesare, Pompeo).
Vedi i ragazzi nostri contemporanei, vivendo sotto i
nostri occhi, sfuggono alla nostra analisi fisionomica, quando
sono ritratti in scultura, come se li spostassimo da una zona
consueta e allora Stefano riprende le sembianze astoriche. I
nostri visi ritornano di continuo e si collocano fuori dal
tempo. D. Fu questa la motivazione che la spinse a
modellare quella testa con i capelli alla
maschietta? R. E' stato un esercizio laborioso;
ho adoperato poco gli attrezzi consueti, le chiavi e le
stecche, sempre una modellazione di pollice o con il palmo
della mano di taglio, per abbassare i piani, per tendere le
tempie, per tirare la pelle intorno alle labbra e stirare gli
occhi. D.Certamente l'affascinò quella estrosa banda di
capelli che copriva la destra del viso sbilanciando fortemente
la composizione. Cosa cercava? R. La ragazza
posò di mattino, sapeva di fresco, di sveglio, come solo a
quell'età accade. Oggi questo ritratto con questi capelli così
mi fa pensare a Pericle Fazzini, lo scultore del vento; ma non
lo conoscevo. D. E Dazzi, il suo
maestro? R. I maestri si hanno solo nei primi
anni della formazione; i migliori non si propongono, ma ti
fanno capire che devi prendere se ne sei capace; poi lungo la
strada si incontrano i compagni della vita che sanno darti più
di un maestro, la competizione, la gioia dell'amicizia,
incoscienza, e l'amore per l'arte. Il maestro ha già fatto
tutto e, se non sai cominciare da dove lui è arrivato, è
inutile proseguire su quella strada. D. E lei deve molto
al suo maestro? R. Al maestro si deve solo
ingratitudine. D. Come? R. Più è
grande il peso che il maestro ha avuto su di te e più è grande
l'ingratitudine che l'allievo sente per lui e che vuole
scrollarsi di dosso; per questo motivo si entra in conflitto,
e dopo può sfociare in odio. Ma non è colpa del maestro, sei
tu che non lo hai eguagliato e tantomeno superato. L'artista segue l'utopia.
Monet ( nelle cattedrali di Rouen 1894 ) ritornava sempre alla
solita ora sul balcone per dipingere lo stesso soggetto. Io
ero certo che la ragazza in posa fosse la stessa della mia
idea. D. Quelle cose ineffabili
dell'arte? R. L'arte è come il sogno, lo si può
vivere ma non raccontare, ti è consentito solo di viverlo in
antitesi alla realtà. D. Parlare d'arte è come dialogare
con un interlecutore? R. L'arte non ha una
dimensione unica, oltre ad avere vari livelli di lettura, ha
anche la prerogativa di mettere in moto il suo lettore. Vedi
due persone vivono un'unica storia; la differenza si esplicita
quando la si racconta, se a raccontarla è uno scrittore ha un
percorso, se la canta il poeta evoca il mito. D. L'arte
non è verità assoluta, a volte, l'antico è datato, allora
perché ammiriamo l'arte del passato? R. La
scienza sì supera. L'uomo invecchia e poi procede verso la
morte! L'arte no, l'arte non si supera; quella che vive
attraverso l'uomo si perpetua attraverso il suo
pensiero. D. Compreso l'arte
contemporanea? R. Oggi l'arte moderna si affida
solo alla grande intuizione, l'opera moderna cura poco la
forma, non racconta in prima persona, paradossalmente però, il
racconto non è assente e non è secondario. E' innegabile però
che la citazione diretta o indiretta di ciò che é stato fatto
e detto nell'arte passata è parte integrante dell'opera d'arte
moderna, come una sua naturale evoluzione nel tempo. L'arte
produce arte. Con parole cocenti e accorate, Gavino Tilocca
si rivolge al figlio: "Angelo fa che il mio studio di
modellazione possa ancora continuare a vivere ed a conservare
la memoria degli accadimenti di cui sono stato ideatore e
testimone; sappi che anche lo studio è un'opera, o almeno è un
grande documento".
Quando hai chiuso la porta
alle tue spalle sospendi tutte le attività iniziate o
concluse, insieme ai nuovi progetti, ( pure questi hanno una
vita già concepita ). Nulla si muove, lo studio chiuso,
l'entropia ferma la sua azione, questa apparente quiete di
forze tese dietro di noi rimangono in vigile attesa, affinché
altri occhi ne innescano il risveglio: esattamente come
accade per la grande arte.
Gavino Tilocca è tra i maggiori scultori sardo. Nasce a
Sassari 1911. Nel 1930 è allievo di Arturo Dazzi. Ha eseguito
numerose sculture per opere pubbliche, ha vinto numerosi premi
e riconoscimenti nazionali, ha tenute numerosissime mostre
personali, è stato pittore eccellente, e straordinario
ceramista. Nel 1940 espone alla biennale di Venezia, nel 1952
espone alla quadriennale di Roma. Opere sue si trovano in
musei, in raccolte pubbliche e private. Ha insegnato materie
artistiche presso l'Istituto d'arte di Sassari. E' morto a
Sassari il 1 dicembre del 1999.
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