Un intenso ritratto dell'artista campano. Gli incontri, l'arte ripensata nella prospettiva insulare, le mostre, i viaggi, l'approccio alla vita e alle opere
di ANTONELLO RUZZU - Rassegna stampa Domenica 30 luglio 2000 da "IL QUOTIDIANO DI SASSARI"
"Ad accogliermi in Sardegna e ad Alghero, nel 1962, sono stati Salvatore Fara, Mauro Manca, Gavino Tilocca". Dopo circa quarant’anni, sempre ad Alghero, in una sera tenera e luccicante al principio dell’estate, Nicola Marotta rievoca gli inizi di quella che fu la sua "seconda vita". Nel ristorante dove si abbandona ad una tra le sue arti predilette – dopo la pittura naturalmente- ossia la conversazione curiosa e divertita arricchita da aneddoti e ricordi, la parete tappezzata dei suoi quadri è forse già un piccolo indice di bilancio per un’attività artistica che, in tutto questo tempo, ha lasciato una segno profondo ed importante nel gusto di un pubblico e di ambienti ampi e differenziati. " Venivo da Brusciano, un paese dell’entroterra circumvesuviano in provincia di Napoli, che dista 35 chilometri da Pompei"", prosegue, "una terra molto più giovane della Sardegna, dove sono arrivato per motivi di insegnamento. Un mio docente all’Accademia di Belle Arti a Napoli, Domenico Spinosa, mi aveva promesso il proprio interessamento per una cattedra nelle Marche. Successivamente, però, vidi il bando per l’istituto d’Arte di Alghero e Salvatore Fara, allora direttore, mi selezionò come insegnate insieme a Mauro Manca e a Gavino Tilocca che divenne mio amico fraterno. Alla fine degli anni cinquanta non solo avevo terminato gli studi ma, poiché a Napoli erano già note le tendenze artistiche internazionali, facevo l’informale, come dimostrano le mie opere del ’60. In Sardegna, invece, trovai una grande pittura "regionale", (Biasi, Delitala, Dessy, Pietro Antonio Manca) che era legittima ed aveva un suo significato preciso. I Candelieri, gli scorci campestri o di villaggio: non c’era artista che non li facesse perché il pubblico vedeva solo quella pittura. Ho dovuto cercare, allora, una mia cifra che da un lato mi consentisse di ricollegarmi all’informale e, dall’altro, permettesse di inserirmi nei gusti di questo mio nuovo pubblico cercando, ovviamente, di portarvi un segno, un modo di vedere, miei, originali perché mi sembravano più in sintonia con i tempi. Ho lavorato tanto e, avendo sempre la necessità di dialogare, di non fossilizzarmi, mi sono inserito in un tessuto culturale e di gusto contribuendo a svolgerlo". La sua "seconda vita" coincise, "in Sardegna e ad Alghero che mi hanno accolto meravigliosamente", con una stagione della cultura pittorica sarda nuova per le aperture e i mutamenti di linguaggio alla quale lui diede il proprio contribuito da protagonista. Ne ricorda le gallerie, "a Sassari erano attive "Il Cancello", la "Sironi" e la "Uno" in viale Italia, poi diventata "Due D" che è stata grande, inventata da Tore Canu, aveva come corrispettivo a Nuoro la "Chironi" ; un maestro come Pietro Antonio Manca, i moltissimi amici come Liliana Cano e Mauro Manca. "Con lui ho vinto molti premi, quando era presidente nelle giurie dei concorsi. Lui in quel clima ha esercitato un grandissimo influsso. Certo, come tutti ha subito il fascino di Picasso. Ma la sua cifra peculiare è dagli anni sessanta in poi, quando è rientrato in Sardegna incominciando a fare delle opere che qui, allora, erano uniche. Le sue ultime opere, quelle materiche, di sabbia, sono le più belle. Sono infatti del parere che l’ultimo Manca, diciamo degli ultimi dieci anni di attività, sia straordinario. Ora è sepolto ad Alghero e, forse, molti di quelli che oggi lo celebrano come l’innovatore dell’arte sarda della seconda metà del ‘900, ogni tanto si scordano di dove sia la sua tomba". Ma come certe figure dei suoi quadri, che paiono protese lungo un margine di confine o che vogliono fuoriuscire dai propri contorni per trascendersi nell’incontro con i lineamenti di altre fisionomie, Marotta ormai destinato ad essere "napoletano in Sardegna e sardo in Campania", ha fatto di questo suo limite insulare la condizione per attraversamenti ed incroci sempre nuovi. Da Napoli, dalla Sardegna e poi da Milano, Torino, Firenze, le sue mostre sono arrivate a Los Angeles (1986) e ora, sino alla fine di giugno, una rassegna di sue opere è stata ospitata in tre città della Germania dove aveva già esposto nel 1977 e nel 1979. Difatti, spiegando come è nata quest’ultima permanenza per circa due mesi in terra tedesca, Marotta dice che "la cosa viene da molto lontano. Non è la prima volta che faccio mostre in Germania.Negli anni sessanta conobbi dei sacerdoti, di cui uno di questi divenne vescovo di Aquisgrana. Si chiamava Klaus Hemmerle ed era figlio di pittore e lui stesso pittore. Nacque una profonda amicizia che è proseguita attraverso altri grandi amici come Wilfried Hageman e Peter Klasvogt, che sono gli attuali promotori di queste tre mostre, legate fra loro da un filo conduttore. I luoghi scelti per le esposizioni sono spazi in edifici straordinari: il primo a Schwerte presso Dortmund, un’accademia cattolica per gli incontri sociali. Il secondo e il terzo spazio sono seminari nel cuore di due splendide città, Essen e soprattutto, Muenster". Oltre alle città ed ai luoghi viene da pensare al pubblico che è stato raggiunto dalla mostra itinerante."Quando si dipinge", riprende quasi anticipando il corso dei pensieri, "si documenta il gioco del caso: vi concorrono infinite circostanze, ogni operazione, anche se dettata da una necessità del momento, è frutto di una casualità totale. Solo quando è conclusa è possibile leggerla. Ma la lettura è la somma degli avvenimenti, quindi è ancora un’altra cosa, ma alla fine i conti tornano, perché sei tu con i tuoi filtri, con la tua formazione e il tuo credo a dipingere e a raccontare cose che si trovano nella sfera dei tuoi sensi, anche se le opere sono nate per quella mostra specifica". Viene da chiedergli, allora, che cosa abbia voluto raccontare di sé e che cosa lo emozioni. Ossia, in definitiva, cos’è la sua pittura. "ho voluto raccontare dell’uomo e del suo male di vivere e del suo destino comune a tutti gli uomini. Il "viaggio", la "porta", che l’uomo si è immaginato per il passaggio ad altre dimensioni, presente ancora oggi, anche se ha radici nei tempi remoti. Mi sono occupato degli spazi della mente, che poi sono quelli della memoria, "Ortus conclusus" sono le memorie accumulate nel tempo, e che oggi alla mia età, con i loro depositi e le loro stratificazioni inquiete, non trovano più pace". Così la conversazione, che ha l’andamento sinuoso di un viaggio mentale, ritorna su una stratificazione molto lontana, eppure sempre presente."Mio padre era un artigiano, un falegname. Da lui ho ereditato il piacere della manualità e l’autoironia. Ancora oggi ho bisogno di una sensazione tattile più che visiva, per ritrovare il contatto con il mio lavoro. La mia coscienza si è formata nel dopoguerra, quando c’era pochissimo spazio per sopravvivere e tutta la mia formazione deriva dalla frequentazione del Museo Archeologico di Napoli. Certo, ho letto Croce, Hegel, De Sanctis, i manifesti delle avanguardie. I futuristi oggi fanno un po’ ridere, anche se Boccioni scriveva con molta sostanza, meno Giacomo Balla che era più un grande pittore soprattutto nella fase pre futurista. Gombrich resta anche oggi il mio preferito. Ma quei 35 km da Brusciano a Pompei contengono il nucleo di tutto. 35 km di sedimentazioni e realtà diverse lasciate dalle grandi civiltà del Mediterraneo. I richiami all’affresco e soprattutto all’encausto, antica tecnica in cui i colori venivano sciolti nella cera e riscaldati al momento di usarli, che sono basilari nel mio lavoro dimostrano che la mia cultura non è tanto il mito quanto la nobiltà della materia. L’affresco mi dà una sensazione tattile… i cinque sensi stanno nella testa, ma il tattile è in tutto il corpo. E poi c’è la luce omerica della Sardegna e Alghero che, essendo ad Occidente, raddoppia la luce perché il mare fa da specchio. Luce così originaria e unica per la qualità dell’arenaria che la cattura, l’assorbe. La luce sembra dentro la pietra. Questa si satura fortemente di colore". Il viaggio e la porta, la Campania e la Sardegna: c’è qui oltre a quello biografico l’itinerario di una pittura che, attraverso la complessità di rimandi e stratificazioni, ma con la grazia leggera della propria magnificenza cromatica, accompagna sia agli inizi di un’intera civiltà estetica, di un’originaria percezione del bello, come della civiltà in toto, ossia il rapporto con l’altro. E ripartendo da lì, oltreché considerevole, l’arte di Marotta è pienamente attuale. Perché è contemporanea l’arte che racconta storie dell’inizio."Nell’arte ci sono relazioni profonde", dice, "e più strette di quanto si pensi. Tra Giotto e Burri c’è una relazione di affinità che si può cogliere riflettendo sulle assonanze, sui passaggi, che a poco a poco emergono. Un’opera per me fondamentale come Villa R di Paul Klee, di struttura compositiva prettamente italica e, dunque, europea, rappresenta un punto di arrivo ma anche di partenza perché è anche un pezzo di pittura che vive solo di pittura. Come La Tempesta di Giorgione, di cui s’è perduto il significato del significato. E’ per questo che mi piace dipingere".